The Zen Circus – Canzoni contro la natura

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zen-circus-nuovo-album-canzoni-contro-natura-copertina-tracklistChi: Terzo disco completamente in italiano del trio composto da Andrea Appino, Ufo e Karim. Gli Zen Circus sono una realtà ormai consolidata del rock italiano, con lavori qualitativamente sempre molto validi e un’attività live energica e incessante. Ritorno sulle scene dopo un periodo di pausa che ha permesso ad Appino di pubblicare il suo primo disco solista, “Il testamento”.

Cosa: Per la prima volta, ascoltando un disco degli Zen, sembra di sentire una dose non tanto nascosta di esperienza e mestiere. La prima impressione è quella di un lavoro pubblicato con urgenza e voglia di tornare, senza preoccuparsi troppo del risultato finale. Per la prima volta, ascoltando un disco degli Zen, stile musicale e sonoro somigliano terribilmente a quanto fatto dal gruppo nel passato più recente. Molto forte anche l’eco del lavoro solista di Appino in più di un passaggio. Gli Zen ripropongono senza strafare quel rock a tinte punk-folk che gli ha resi celebri, con melodie molto easy e arrangiamenti sostenuti, merito di una sezione ritmica muscolare che è cuore pulsante e carica sonora inarrestabile. Il gruppo ha fatto tesoro della propria esperienza ormai 20ennale e, consapevole dei propri punti di forza, ha riadattato con un bel po’ di mestiere la formula del successo assicurato. Intendiamoci, il risultato è ancora una volta eccellente, numerosi i brani di ottimo livello, ma è netta l’impressione di avere a che fare con un lavoro arrivato senza nemmeno essere partito, con davvero poche cose nuove da raccontare. A spiccare sono ancora una volta parole e testi in una sorta di concept dedicato alla “natura” e all’inserimento dell’uomo e della decadente società moderna nei suoi ormai oliati e millenari meccanismi.

Quindi: Niente di nuovo o particolarmente sorprendente. Gli Zen Circus sembrano sedersi sui soliti meccanismi, ma questi sono ancora perfettamente oliati e ricchi di spunti e soddisfazioni. Ne viene fuori un disco di mestiere, inferiore ai due precedenti ma comunque di alto livello, con spunti molto ben riusciti e alcuni brani di pregevolissima fattura. Da ascoltare per tenere alta la bandiera del rock nel nostro paese, sempre e comunque.

Più: Albero di tiglio, Viva, Dalì
Meno: Troppo uguale al passato e inferiore ai lavori precedenti

Voto: 7

Dente – Almanacco del giorno prima

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Dente-Almanacco_del_giorno_prima-401x395Chi: Giuseppe Peveri, in arte Dente, uno dei maggiori esponenti del nuovo cantautorato “alternative” italiano; appena passato alla Sony e alla sua quinta fatica discografica con un successo di critica e pubblico sempre maggiore. Il titolo trae ispirazione dalla celebre trasmissione Rai “Almanacco del giorno dopo”. Qui un mio report per melty.it

Cosa: “Almanacco del giorno prima” non si discosta particolarmente dalla produzione precedente del cantante di Fidenza. Scelta musicale ricercata e soft, sensazioni sempre in bilico tra l’allegro-spento e il malinconico-brillante. Dente si dimostra per l’ennesima volta paroliere acuto e brillante, con scelte testuali e tematiche sempre molto varie e ben strutturate, mai banali e colme di arguti giochi di parole e chiavi di lettura multiple e spesso non facili da cogliere. Il cantautore, disco dopo disco, riesce a sfruttare con sempre maggiore maestria tutte le sue più grandi peculiarità: una ricchezza di parole e rime è accompagnata da arrangiamenti sempre diversi e ricchi di spunti e suggestioni, molto solidi ma fondamentalmente semplici. Tanti strumenti acustici, un po’ di ritmo e tanto brio per accompagnare nel miglior modo possibile le parole e il cantato. Melodie sempre orecchiabili con un retrogusto che sa di passato e “vintage”. Rispetto ad altri lavori tutto suona molto più vecchio e antiquato, in quasi totale contrapposizione con lo stile fresco e moderno da sempre marchio di fabbrica inconfondibile e irrinunciabile del buon Dente.

Quindi: Niente di particolarmente nuovo rispetto ai dischi precedenti, ma Dente sa il fatto suo e si ripropone in tutto il suo stile stralunato e ricercato fatto di giochi di parole arguti e mai banali. Il tutto condito da suggestioni musicali dal sapore retrò e ancorate al passato. Per 40 minuti di piacevolezza musicale.

Più: Chiuso dall’interno; Remedios Maria; Un fiore sulla luna; Meglio degli dei
Meno: Poca originalità rispetto ai lavori precedenti

Voto: 7

Green Like July – Build a fire (2013)

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Green-Like-July-Build-A-FireChi: Per molti il miglior disco italiano del 2013. Per me un disco che ho potuto recuperare e approfondire come si deve solo ultimamente. Loro sono i Green Like July, quartetto milanese capitanato da Andrea Poggi ed entrato sotto l’ala protettrice de “La Tempesta” e del buon Enrico Gabrielli.

Cosa: Se nel disco precedente la base di partenza era molto più vicina al folk, ora diventa arduo stabilire identità o classificazioni ben precise. Il gruppo è sicuramente molto vicino ad un’attitudine ed un gusto musicale del tutto americano, canta in inglese e ha una componente pop e melodica forte e spiccata. I punti fermi finiscono qua, “Build a fire” è un contenitore di suggestioni e musicalità infinite: se le melodie risultano tutte ben riuscite e delicatamente soffuse nel loro procedere sempre a ritmi e velocità diverse, a sorprendere sono soprattutto gli arrangiamenti. Una moltitudine di strumenti perfettamente miscelati riesce a creare una musicalità eterea e quasi impalpabile, un insieme di sentimenti sempre vari e mai uguali a se stessi. Ogni strumento – e fidatevi, sono davvero tanti – è li esattamente dove deve essere. Al tutto si aggiunge una produzione di altissima qualità che valorizza le scelte sonore del gruppo, in un tripudio di piani, archi e sensazioni indecifrabili.

Quindi: Un bel disco pop come pochi. Ottime scelte melodiche e arrangimenti complessi, multistratificati e davvero ben riusciti. Chiara la derivazione di stampo americano, altrettanto chiaro quanto grande sia il talento di questo gruppo.

Più: Moving to the city, Tonight’s the night
Meno: Disco non del tutto immediato; arrangiamenti a volte troppo carichi

Voto: 7.5

Verona – Concerto Capodanno 2014

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cp2014Chi: Classico “concertone” di fine anno nella piazza principale della città scaligera, quella con l’Arena e la grande stella cometa natalizia. Protagonisti Enrico Ruggeri, Timothy Cavicchini e una folta schiera di artisti più o meno locali, più o meno conosciuti.

Cosa: Pochi soldi, questo l’imperativo categorico di uno spettacolo con tanti artisti ma tecnicamente e musicalmente molto povero. Passi per gli artisti locali e i vincitori del “Verona Talent Show”, ma vedere musicisti – o presunti tali – esibirsi dal vivo e su base registrata è stato a dir poco avvilente. Emblema della serata l’esibizione del secondo classificato del reality “The Voice” Cavicchini, artista che prova ad essere rock, ma che si esibisce vergognosamente senza una band, perdendo tutta la poca credibilità che è riuscito (?) a guadagnarsi in questi mesi. Capitolo a parte per Enrico Ruggeri, passato e trapassato del vecchio cantautorato italiano, che in un’ora scarsa di musica snocciola i suoi maggiori successi e qualche brano natalizio con arrangiamenti rock parecchio noiosi e monocorde, conditi da una buona band e una voce che ormai non si sente quasi più. E se Flavio Tosi sul palco è stato quanto meno imbarazzante, a risolvere la situazione ci ha pensato la presentatrice – Francesca Cheyenne di Rtl – con le parole più belle dell’intera nottata: “Il nostro Sindaco, che ha fatto tante cose per questa città… Comunque la pensiate”. Tutto da buttare? Ovviamente no. Assolutamente degni di nota Daniele Ronda, che ha animato la serata e finalmente coinvolto il pubblico con il suo folk allegramente di poche pretese; i fuochi d’artificio stupendi pur con qualche intoppo; Chiara Di Marco, voce pura, cristallina e tecnicamente ineccepibile e tutti i ragazzi del Verona Talent Show (ballerini esclusi) che hanno cercato di animare un pubblico morto e difficilissimo da coinvolgere.

Quindi: Uno show quasi tutto da dimenticare, salvato in extremis dal bellissimo spettacolo pirotecnico e da qualche emergente artista locale. Una città come Verona meriterebbe più di un Enrico Ruggeri in giubbotto nero che canta per 45 minuti.

Più: I fuochi, Daniele Ronda, Chiara Di Marco
Meno: (in ordine decrescente di imbarazzo) Cavicchini, Tosi, Colore e Ruggeri.

Voto: 6

Ligabue – Mondovisione

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Ligabue Mondovisione albumChi: In tempi di magra musicale e nell’attesa di recuperare nuovi film e serie tv mi ritrovo ad ascoltare l’ultimo disco del “sempreverde” Ligabue, vero divora classifiche del nostro Paese insieme al suo eterno rivale Vasco Rossi.

Cosa: Star qui a parlare del vistoso calo qualitativo delle musiche di Ligabue lungo gli ultimi 10 anni è sport preferito di chiunque abbia apprezzato uno dei suoi storici album del passato. Una parabola discendente che continua la sua corsa vertiginosa verso il basso con un disco che, a conti fatti, più che brutto risulta anonimo ed un poco insulso. Mai a fuoco, discontinuo e spesso irritante, si nutre di musicalità pop e melodie solo raramente apprezzabili, con scelte musicali e arrangiamenti mai del tutto riusciti. I testi alternano tematiche intime e personali con fiacchi pseudo-ritratti sociali. Quelli più personali sono i brani dalle liriche più riuscite, ma dove il testo è buono a scarseggiare sono spesso la melodia e l’arrangiamento; viceversa quando la melodia si fa ascoltare, testi e arrangiamenti toppano terribilmente. Le canzoni quasi totalmente riuscite si concentrano tutte lungo la parte finale del disco, ma non riescono a risollevare le sorti di un album nato e sviluppato malissimo. Ispirazione ai minimi storici e stile senza alcuna direzione precisa. Il disco appare come uno schizzo deforme di suggestioni musicali buttate quasi a caso: nel tentativo di scrollarsi di dosso lo stile chitarristico del passato si è arrivati ad un compromesso che non ha più alcuna identità precisa e fa acqua da tutte le parti.

Quindi: Qualche canzone decente non risolve un album generalmente pessimo e senza identità alcuna. Un tempo, pur in tutta la sua ripetitività, Ligabue proponeva dischi pop-rock onesti e con brani ben riusciti; ora, alla ricerca dell’originalità, vengono fuori dischi carichi di suoni ma totalmente privi di senso musicale.

Più: La terra, amore mio; Per sempre; Ciò che rimane di noi
Meno: Arrangiamenti troppo carichi, melodie insulse e mai veramente coinvolgenti

Voto: 4.5

Baustelle – La moda del lento

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baustelle_-_la_moda_del_lento_-_frontChi: A dieci anni dalla sua uscita torna nei negozi di dischi La moda del lento, secondo LP dei Baustelle dopo il bellissimo “Sussidiario illustrato..”. Un modo per rendere omaggio e ricordare un disco atipico, primo passo verso una maturità artistica oggi sotto gli occhi di tutti.

Cosa: Se il Sussidiario risultava musicalmente accessibile ma con molti spigoli ancora da smussare, La moda del lento tenta di fare molto di più, grazie alle solite melodie orecchiabili arricchite però da scelte stilistiche e musicali quasi ardite e non certo da band giovane e semiesordiente. Album di passaggio, primo passo che distacca i Baustelle dalla loro beata giovinezza per portarli in quell’olimpo cantautorale dove ancora oggi risiedono. Meno tormenti e racconti di giovinezza ormai perduta e molti più riferimenti letterali, tanta varietà, tanto amore, tanto tabagismo spinto. A spiccare è il massiccio lavoro sugli arrangiamenti e sui suoni, una varietà infinita di elettronica e synth, con ottime scelte strumentali e di suono. Lo stile è piacevolmente fresco e vagamente retrò anche se personalmente continuo a preferire l’immediatezza dell’esordio, ma forse è questo il disco di maggior peso nel segnare la svolta artistica dei Baustelle: pur cambiando la cifra stilistica e i suoni l’identità della band risulterà sempre, disco dopo disco, perfettamente riconoscibile. E oggi ne vediamo piacevolmente risplendere i risultati.

Quindi: Album di fondamentale importanza nella carriera dei ragazzi di Montepulciano. Vario, fresco, ottimi arrangiamenti, melodie piacevoli, testi di alto livello, ma un gradino sotto rispetto all’esordio.

Più: Reclame, La moda del lento, La canzone di Alaind Delon
Meno: Cin cin

Voto: 7

Zucchero – Una rosa blanca

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Zucchero_Una_rosa_blanca1-500x500Chi: Un live registrato direttamente a l’Havana un anno fa, lo scoro 8 dicembre. Un concerto di grandissimo successo che ha visto Zucchero coronare il suo sogno di suonare a Cuba davanti a 70 mila persone.

Cosa: Il live segue il mood de “La sesion cubana”, ultimo disco in studio del cantante emiliano pervaso da sonorità sudamericane con cover, alcuni inediti e vecchi brani riarrangiati per l’occasione. Il live conta 26 brani più un inedito carino ma non eccezionale. Sono presenti canzoni del passato, numerosi brani della tradizione cubana e pezzi del presente più recente tutti modificati e rivestiti di suoni nuovi in un turbinio di percussioni, chitarre acustiche, archi e fiati. A farla da padrone è sicuramente il ritmo, sempre molto alto e vivo, anche nei pezzi tradizionalmente più lenti. Le nuove versioni nulla tolgono e nulla aggiungono ai brani nella loro versione originale, alcuni sono molto ben riusciti ed altri un po’ meno. Ad essere maggiormente penalizzati sono forse i brani più storici, mentre acquisiscono spessore quelli più recenti. Molto belle invece le cover e i brani studiati apposta per il concerto, valorizzati incredibilmente dalla bravura di tutta la band. Inutile star qui a parlare della tenuta vocale di un Zucchero che, nonostante gli anni passino, continua a cavarsela parecchio bene, pur se penalizzato da una registrazione un po’ troppo effettata.

Quindi: Un buon live con ottime cover e riarrangiamenti nel complesso riusciti. I brani storici perdono in bellezza e atmosfere, quelli nuovi risultano quasi tutti valorizzati. Una buona testimonianza di un evento unico nel suo genere e nella storia del cantante emiliano. Da ascoltare.

Più: Everybody’s got to learn sometimes; Senza una donna; Love is alla around; le cover
Meno: Baila; Così celeste; Diavolo in me; Per colpa di chi

Voto: 7

Il muro del canto – Ancora ridi

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Ancora_Ridi_coverChi: Un gruppone romano di musica folk. Al secondo lavoro dopo un primo album uscito lo scorso anno e una lunga serie di concerti su e giù per lo stivale. Prodotti dall’esperto Tommaso Colliva dei Calibro 35.

Cosa: Un folk rock acerbo e a tinte fosche, tutto giocato su chitarra e fisarmonica, con consistenti inserti elettrici a dare potenza ed energia. Un ritmo altalenante, quasi sempre tirato e mai noioso, in bilico tra atmosfere da vecchia balera puzzolente e film western di serie b. La voce roca e sporca di Daniele Coccia si fa apprezzare e ammalia, il dialetto romano risulta quasi sempre azzeccato e mai fuori luogo, capace di dare ai pezzi una musicalità a tratti sorprendente. I testi raccontano una capitale e un Paese disilluso e decadente, raccontano la società degli umili o quello che ne rimane: un affresco di fame, umiltà, amore, morte, proletariato, alla ricerca di un’identità capitolina che il tempo sta piano piano dissolvendo. Un disco buono, piacevole, ritmato e per nulla banale, elementi semplici ma sfruttati a dovere.

Quindi: Folk-rock romano, mezzo in dialetto e mezzo in italiano. La storia di una città, dei suoi simboli e dei suoi personaggi. Un racconto godibile e ritmato, che si concede le sue pause ma non annoia (quasi) mai.

Più: Ancora ridi; Il canto degli affamati; Er funerale
Meno: Palazzinari è carina, ma dopo una partenza di fuoco sembra un poco fuori contesto

Voto: 7

Hola la Poyana – A Tiny Collection Of Songs About Problems Relating To The Opposite Sex

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a3745544538_10Chi: La one-man band – o progetto musicale che dir si voglia – di Raffaele Badas, ragazzo sardo di Cagliari al secondo disco dopo un LP autoprodotto nel 2012.

Cosa: Nove canzoni di breve durata per un lavoro tutto voce e chitarra. Qualche piccolo inserto musicale di archi, tamburi e ukulele a fare da tappeto sonoro ad una formula musicale tipica di chi fa tutto da solo ed è pienamente convinto delle sue capacità. La voce è bella e profonda, il ritmo rilassante ma non troppo monotono, le canzoni tutte abbastanza godibili. L’album deve tanto a progetti analoghi (su tutti, con le dovute differenze del caso, mi viene in mente Bon Iver) e non si discosta molto da quanto proposto in svariate salse da chi si diletta in canzoni fatte solo di voce e chitarra acustica. L’artista ci mette impegno, ma il senso di già sentito è purtroppo tanto, seppur non manchi quel pizzico di personalità e qualche guizzo importante. Il disco riesce comunque a venir fuori in tutta la sua compiutezza solo dopo svariati ascolti, ma il senso di dejà-vu è purtroppo presente anche sulla lunga distanza.

Quindi: Un disco carino, ma non eccelso. Belle canzoni, ottima personalità, ben poca originalità.

Più: As time goes by; Rilassante, ma ben ritmato
Meno: Troppo simile a progetti analoghi

Voto: 6.5

Soviet Soviet – Fate

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Pizzadigitale-Soviet-SovietChi: Un trio pesarese al suo vero e proprio esordio discografico, dopo LP vari e una lunga serie di concerti che li ha consacrati come band indie tra le più apprezzate in terra straniera. Non a caso il disco è pubblicato dalla label americana Felte.

Cosa: Chiudete gli occhi e immaginatevi negli anni 80, quando i Cure davano alle stampe Pornography, i Joy Division avevano già fatto la storia, i Diaframma esordivano con Siberia e i Litfiba erano il nome di punta della new-wave italiana. Il sound di Fate pesca a piene mani dalla musica oscura di quegli anni: un post-punk dalla sezione ritmica muscolare, con chitarre disturbanti a fare da contorno e accrescere la potenza. Basso e batteria sono potenti e impetuosi, dettano l’incedere sempre costante dei brani, non lasciano mai un attimo di respiro, come in una marcia inarrestabile e funerea. Il cantato ricorda vagamente quello di Molko dei Placebo, ma a spiccare è soprattutto un’identità sonora delineata e quadrata, sicura della sua semplicità e delle atmosfere che è capace di creare. Una musica potente, precisa e “sveglia”, che non brilla per varietà ma è capace di regalare atmosfere cupe e oscure che sembravano essersi perse con il tempo, e che sono invece magicamente tornate dopo anni di oblio.

Quindi: Un disco che fa del suono e delle atmosfere la sua arma vincente. Potenti, sicuri, decisi, a volte monotoni, ma con tutte le carte in regola per riscrivere la storia di un genere tanto nobile quanto troppo spesso dimenticato

Più: 1990, Introspective trip; Un suono potente e granitico, dalle atmosfere perfette; Parti strumentali da capogiro.
Meno: Manca un po’ di varietà.

Voto: 7.5